di Barbara Cuoghi (Insegnante – Scuola media statale “G. Carducci” – Modena)

Vi proponiamo un estratto dell’articolo pubblicato sul blog della casa editrice Topipittori, e vi rimandiamo al link per completare la lettura. Una riflessione su come il senso di compiutezza e di bellezza che siamo abituati a sentire connaturate a libri e albi illustrati dovrebbe invece estendersi anche ai volumi scolastici, a come sono pensati e, ovviamente, al loro contenuto e all’uso che se ne fa.

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Esistono libri e albi bellissimi. Ognuno di noi ha il suo personale carnet. Poi ci sono libri che trascendono il piacere che possono dare la parola e la figura insieme e che, pur entrando a pieno titolo nella categoria “libri belli”, spiccano per una caratteristica diversa: si impongono per la loro pienezza e compiutezza.

Poche settimane fa ho avuto la fortuna di ascoltare Chiara Carrer, bravissima illustratrice, che in un incontro organizzato da Passa la Parola, spiegava quale sia la sua ricerca, cosa le interessi comunicare e attraverso quali modalità. Al termine di un monologo di un’ora, le sue parole mi hanno lasciato un’impressione stupefacente, del tutto simile a quella che ne avevo ricavato apprezzando di persona Giusi Quarenghi lo scorso anno, in un’analoga occasione. Entrambi i momenti, ricuciti a distanza di tempo, sono stati per me illuminanti, nel senso che mi hanno reso ragione della straordinarietà dei testi di queste due autrici. La loro solidità personale, la passione che le muove e la serietà del loro lavoro si distilla e si sostanzia nei libri.

Non c’è bisogno di essere un bambino per comprendere la precisione del testo e la visione personalissima della loro versione dei tre porcellini, ci riesce anche un adulto. Da qui la considerazione più generale che leggendo libri che nascono da uno studio approfondito, ben pensati e ben realizzati si accede, consapevolmente o meno, a un percorso di ricerca che mette a fuoco la realtà con la visione personalissima dell’autore. Spesso, parlo per me, non siamo in grado si decodificare completamente l’impianto autoriale, almeno non immediatamente, ma ne ricaviamo comunque una generale e preziosissima impressione di bellezza.

Ovviamente il talento di un autore traspare dall’opera, ma sarebbe estremamente riduttivo non ammettere che una produzione di questo tipo è espressione alta di cura, precisione e studio che risultano nell’esattezza della parola giusta al momento giusto, oltre che nella rappresentazione grafica più appropriata, quasi necessaria. In altre parole, la poesia dell’insieme sta proprio in una costruzione attenta e concertata in modo che tutto sia in accordo perfetto. L’idea che uno scrittore o un illustratore si siedano a tavolino e, di getto, ispirati dal sacro fuoco dell’arte, producano senza coscienzioso impegno un’opera d’arte va cancellata dal nostro immaginario, o almeno molto ridimensionata, esattamente come lo stereotipo dello scienziato pazzo che entra in laboratorio e, con un colpo di genio, fa una scoperta che gli vale il premio Nobel.

Mentre in questi ultimi giorni riflettevo su queste cose, mi sono ripetutamente imbattuta, sia personalmente sia in rete, in madri (ché l’educazione e la scolarizzazione dei figlioli in questo Paese è appannaggio quasi esclusivamente materno) giustamente preoccupate per pubblicazioni infelici, con titoli fuorvianti, schemi alla pagina sbagliata, o per i molti errori di stampa e, meno frequentemente, di concetto di cui sono infarciti i libri di testo dei ragazzi. Dal canto mio, pochi giorni fa, mi sono stupita nel leggere sul libro di mitologia ed epica di mia figlia, che ha appena iniziato la prima media, una traduzione del proemio dell’Iliade che dal classico “Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei…” di Monti è diventata “Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide, rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei…” nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti. Mi sono chiesta, leggendo la prima pagina, se la traduzione di Calzecchi Onesti sia più corretta, più musicale o semplicemente più facile, e se il mio disappunto sia stato determinato solo dal fatto di avere familiarità con l’unica traduzione che ho sempre studiato e che, per limite mio, mi appare quindi più bella.

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