Continuiamo a parlare di censura ospitando l’intervento di Manuela Salvi, già citata nell’articolo precedente Parole in libertà. Sulla censura. Ci sembra necessario proseguire il confronto sulla censura e allargarlo all’idea di normalità e soprattutto di conflitto. Quanto spazio lasciamo ai ragazzi per esprimere un pensiero diverso, magari contrastante con il nostro?
Di Manuela Salvi
I gay non sono normali.
Me lo dice una ragazza durante un incontro con la sua scuola. Ho appena letto Nei panni di Zaff ad alta voce e so che per i ragazzi delle superiori – i giovani adulti – è destabilizzante, provocatorio. So anche che in scuola di altro ordine e grado sarebbe meno difficile, perché i pre-adolescenti non sembrano aver ancora metabolizzato la distinzione che il mondo dei grandi fa tra “normale” e “anormale”.
Per gli scrittori la normalità è il terreno del conflitto. È la facciata dietro la quale si nascondono le sfumature più interessanti ma soprattutto le bugie, specchio delle bugie della società. In nome della normalità, si finge. In nome della normalità si nega ai bambini, anche oggi, il diritto di esplorare la propria identità. Kerry Robinson parla addirittura di “gerarchie di normalità” a cui i bambini sono presto spinti ad adeguarsi per non essere diversi. Una famiglia normale, una vita normale, una persona normale. Lo senti in TV, riferito all’assassino: “Un ragazzo normale”.
Affronto la ragazza, discutiamo. Lei non sa che se fosse nata cinquant’anni fa, sarebbe normale che in caso di violenza sessuale fosse costretta a sposare il violentatore, per riparare alla vergogna. Non sa che durante la prima guerra mondiale era normale mandare in trincea ragazzini più piccoli di lei. Che cos’è la normalità, in fondo, se non quel valore astratto che viene utilizzato di epoca in epoca per giustificare i pregiudizi o il potere della maggioranza? Come ho detto in un’intervista recente, quello che viene considerato “normale” serve a far sentire anormali le minoranze e a costringere le persone, in generale, a uniformarsi sotto l’ansia dell’esclusione. Quindi si potrebbe affermare che la normalità non esiste: è solo la maschera gretta del conformismo, che promette ordine e in cambio distribuisce infelicità, incomprensione.
Ma la normalità gratifica molti adulti. L’autore per ragazzi, di conseguenza, eternamente diviso tra arte e commercio, produce testi profondamente condizionati dalle esigenze di marketing, dalla visione che l’editore ha della letteratura per ragazzi (la parola che risuona spesso è rassicurante) e le aspettative dei “gatekeepers”: genitori, insegnanti, bibliotecari, adulti. Immerso in queste tensioni culturali – e adulto lui stesso – l’autore per ragazzi deve decidere se conformarsi o diventare quello che gli inglesi definiscono un “challenger”, cioè un intellettuale che sfida, provoca, stimola e osa in nome del cambiamento o anche solo per rispetto di ciò che chiamiamo “letteratura”.
La necessità di un’autoregolazione quando si scrive per ragazzi è riconosciuta, eppure non è sempre chiaro quando questa muti subdolamente in forme di pre-censura, auto-censura o censura culturale. Da un anno a questa parte, Nei panni di Zaff è bersaglio della censura culturale: in assenza di armi e istituzioni preposte alla censura violenta, semplicemente si fanno sparire i libri. Se ne vieta l’utilizzo nelle scuole, li si occulta in biblioteca, se ne impedisce l’acquisto con i soldi pubblici. È un tipo di censura che fomenta il consenso facendo leva sulle paure ma che in realtà non analizza in profondità il testo sotto accusa e preclude qualsiasi tipo di discussione a riguardo.
Come ho scritto varie volte, nessuno sembra essere il censore ma in molti hanno censurato i propri pensieri, stabilendo limiti naturali tra ciò che è appropriato e ciò che non lo è. Il risultato è la morte lenta della “biodiversità” nella letteratura per ragazzi nel paese in cui si consente questa pressione ideologica. Resta la letteratura rassicurante, in cui i “conflitti educati” presentano una versione della realtà sgravata da gran parte del peso della realtà stessa: si parla di sesso senza parlare davvero di sesso, di guerre omettendo la violenza, di famiglie “normali” in cui sono rari gli adulti sgradevoli o inadeguati, di passato e poco di presente.
Tutto questo non sarebbe così rilevante se i “conflitti educati” mettessero a rischio solo l’esistenza degli scrittori più controversi. Invece quello che è a rischio è il margine concesso ai giovani lettori per esplorare conflitti e problematiche che li riguardano da vicino. Li si pone nella condizione di poter (o dover?) ignorare tali conflitti, imparando appunto le dinamiche del conformismo e relegando tutto ciò che è scomodo, incomprensibile o anche solo diverso nel territorio dell’anormale. Ma la letteratura che passivamente accetta di contribuire a questo sopruso – perché di sopruso si tratta, l’edulcorazione della realtà tramite l’occultamento o la manipolazione delle informazioni (“conoscenza soggiogata”, secondo Robinson) – si macchia a mio parere di un grave crimine ideologico e rischia a lungo termine di implodere su se stessa, favorendo toni didattici o paternalistici ma soprattutto allontanando i lettori che, vivendo nel terzo millennio, troveranno altri media disposti a fornire loro le informazioni di cui hanno bisogno.
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