di Simone Piccinini – Hamelin Associazione Culturale
Anche quest’anno Xanadu – Comunità di lettori ostinati, il nostro progetto di promozione della lettura per adolescenti è arrivato al termine della sua dodicesima edizione con una festa finale che ci ha fornito dati interessanti per alcuni spunti di riflessione. Possiamo infatti tentare alcune considerazioni generali sul rapporto tra adolescenti e lettura oggi proprio utilizzando il filtro delle storie che ragazze e ragazzi tra i 13 e i 17 anni hanno più letto, commentato e amato. Una prima chiave potrebbe essere relativa agli elementi che costituiscono la storia “ideale”, se esiste, per questa fascia d’età; un’altra invece potrebbe essere di carattere storico-antropologico, riferibile all’immaginario, che naturalmente muta, e condiziona gusti e tendenze; per intenderci, è quel livello che porta a chiedersi perché i ragazzi circa dieci anni fa abbiano iniziato a divorare storie di nuovi vampiri, dolci, gentili e innamorati (Twilight e tutti i vari proseguimenti vampireschi) e da un po’ siano molto presi dalle storie di fantascienza distopica.
Partiamo quindi proprio dalle storie, e dalla classifica delle più amate tra quelle inserite nella ricca bibliografia multimediale del progetto (90 titoli tra letteratura, cinema, fumetto), e proviamo a vedere se ci sono degli elementi che le accomunano, o le collegano.
- Christiane F., Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino, Rizzoli
- Richard Matheson, Io sono leggenda, Fanucci
- Nelle Harper Lee, Il buio oltre la siepe, Feltrinelli
- David Grossman, Qualcuno con cui correre, Mondadori
- George Orwell, 1984, Mondadori
- Stephen King, Carrie, Bompiani
- Melvin Burgess, Kill all enemies, Mondadori
- Aidan Chambers, Muoio dalla voglia di conoscerti, Rizzoli
- Deborah Ellis, Sotto il Burqa, Rizzoli
- Gary Paulsen, Nelle Terre selvagge, Piemme
- Jerry Spinelli, Stargirl, Mondadori
La prima cosa che colpisce è che tra i primi otto classificati su 90 testi proposti alle scuole superiori, solo due sono stati scritti espressamente per giovani, e sono opere di due mostri sacri della letteratura per ragazzi. Aidan Chambers e Melvin Burgess, infatti, sono autori che hanno grande considerazione del loro pubblico e lo ritengono all’altezza di storie complesse e raffinate, nello stile e nei temi, e sono a tutti gli effetti veri e propri nuovi classici.
Gli altri titoli più apprezzati tra quelli della bibliografia sono tutti “per adulti”.
I giovani lettori hanno quindi scelto con decisione testi difficili: inutile far notare che l’editoria punta tutto in direzione opposta, semplificando trame, personaggi e stili, e che troppi ritratti di grande fortuna mediatica vogliono raccontare i ragazzi solo come disinteressati, disattenti, disimpegnati (Gli sdraiati, come recita il titolo di recente maggiore successo).
Il risultato di questo progetto, che coinvolge direttamente più di quattromila adolescenti di diverse zone geografiche, dagli istituti professionali ai licei, esprime chiaramente che l’attenzione va ai grandi temi, tanto più che a ben vedere tutti i libri dell’alta classifica sono testi forti, impegnati, portatori di una decisa critica sociale.
Sorprende per esempio trovare anche in cima alla classifica delle scuole medie un libro come Sotto il burqa di Deborah Ellis, primo della Trilogia del Burqua, che tratta la vicenda di una bambina afghana sotto la dittatura talebana, costretta ad assumersi responsabilità pesantissime in un contesto che annulla la donna e le più naturali libertà. Dopo l’arresto del padre, unico maschio della famiglia, per la sua libertà di pensiero, Parvana deve travestirsi da uomo e sostenere con il suo lavoro i componenti del nucleo familiare, nella rassegnazione o nella paura generale. Ribaltamento delle responsabilità e profondo senso di ingiustizia sono i due elementi che caratterizzano questa storia, in cui solo il coraggio di una ragazzina permette una via d’uscita.
La stessa grande attenzione alla società e al ruolo del valore del singolo nel mutarla, è al centro anche di Il buio oltre la siepe, un classico della letteratura mondiale che continua ad essere amato, e che Barack Obama ha giustamente consigliato come obbligatorio nel programma scolastico statunitense. Lo sguardo affilato di Scout ci conduce all’interno della segregazione razziale degli anni Trenta nel sud degli Stati Uniti. Ancora una volta una bambina coraggiosa che aiuta un padre altrettanto coraggioso a sfidare un’intera comunità, mossi solamente da un profondo senso di giustizia, e sapendo perfettamente che la loro posizione porterà solo guai alla famiglia. Una storia che ci mette in guardia sul pregiudizio e gli stereotipi sociali ma che ci ricorda anche il profondo valore della magistralità. Atticus Finch, prima di essere un buon padre, è un buon maestro. Senza gli insegnamenti del padre probabilmente anche Scout sarebbe vittima del condizionamento sociale e della cultura razzista del suo piccolo paese: i bambini non sono ontologicamente buoni, e se ancora qualcuno avesse dubbi al riguardo si legga il capolavoro che assicurò il Nobel a William Golding, Il signore delle mosche, in cui i ragazzini devono crescere senza adulti, con esiti disastrosi.
E infatti è proprio la mancanza di una guida che condanna la giovane Christiane al suo terribile destino di tossica e prostituta all’ età di 13 anni. Se una cosa la denuncia chiaramente Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, vincitore assoluto di questa edizione, al di là dell’inferno descritto nei dettagli, senza sconti di sorta, è proprio l’abbandono dei più giovani, la fuga degli adulti dal proprio ruolo e dalle proprie responsabilità, la mancanza di futuro che galleggia nell’aria. L’urlo di Christiane e’ potente, disperato, e dice apertamente che nessun adulto vuole avere a che fare con lo spaesamento che vivono i ragazzi. Immagine emblematica della ritirata non solo della famiglia, ma di tutto il mondo che la circonda, è quella che ci offre il rientro a casa di Cristiane, accolta dall’odore di piscio di gatto quando varca la soglia del suo palazzo dormitorio: abbandono, sporcizia, incuria e alienazione. La critica sociale è chiara, nitida e senza appello. Gli adulti in questo libro o sono assenti, come i genitori, o sono presenti in forma di carnefici bestiali. Adulti adescatori di bambini, che ne comprano il corpo per sottoporli ai loro indicibili appetiti, consistenti in umilianti prestazioni sessuali.
È evidente che anche in questo caso l’identificazione del lettore non può essere diretta, ma passa per altre vie che la rendono comunque, e anzi ancor più, potente: i ragazzi ancora oggi amano il libro per il suo portato simbolico. Così come è il suo valore simbolico che ha portato al successo planetario la fantascienza sociale di Hunger Games (il maggior fenomeno editoriale ed immaginativo dopo Harry Potter) e tutta una lunga serie di storie in cui è rintracciabile una profonda divisione tra generazioni, e in cui i ragazzi sono mandati al macello dagli adulti.
Senza arrivare ad esiti così clamorosi, per fortuna solo metafora fantastica di un mondo però non troppo lontano dal nostro, di certo anche i ragazzi raccontati da Melvin Burgess in Kill All Enemies non possono contare su adulti capaci e presenti. Durante una chiacchierata, l’autore ci ha raccontato che ha passato molto tempo in compagnia di alcuni «ragazzi difficili» in vista di un programma per la BBC che poi non si è fatto, e dai brogliacci raccolti ha ricavato questo splendido romanzo di denuncia. Protagonisti della storia sono tre ragazzi provenienti da estrazioni sociali diverse, ma accomunati da un percorso esistenziale che li fa incontrare in una scuola «speciale», quasi un carcere minorile. Billie, rabbiosa e violenta, tanto da risolvere tutte le questioni con i pugni, è stata abbandonata dalla madre. Rob, sovrappeso e con le orecchie troppo grandi, la vittima perfetta per i bulli, ha una famiglia disastrata. Chris, di buona famiglia e con un futuro quasi assicurato, si scontra quotidianamente con l’ipocrisia di figure che fingono di interessarsi a lui. Burgess lascia uno spiraglio a questi ragazzi, ma la speranza proviene dalla loro amicizia, dalla forza della solidarietà, non da un mondo capace di accoglierli: ancora una volta i ragazzi devono fare da soli, non possono contare sugli adulti. In realtà una figura adulta ci prova ad essere presente, ed è l’assistente sociale. Ma anche lei ci riesce a metà.
Ad affondare definitivamente la figura degli adulti ci pensa Stephen King con Carrie. King non ha mai avuto riguardi per i grandi, ed in particolare per coloro che hanno un ruolo istituzionale o educativo, ma qui il colpo è terribile. Carrie White ha una madre fondamentalista religiosa che crede che la donna sia di sua natura portatrice del peccato. Di conseguenza, perché possa espiare la propria colpa, costringe spessissimo la figlia a pregare inginocchiata in uno sgabuzzino buio, a indossare vestiti fuori moda, lunghissimi e ricchi di pizzi, per celare il proprio corpo alla vista dei ragazzi. Naturalmente tutte queste stranezze attirano il sadismo della massa omologata, e quindi delle compagne «alla moda», che architettano scherzi molto pesanti. Ma naturalmente nessuno conosce i poteri di Carrie, e la sua sete di vendetta… L’autore centra due sentimenti archetipici dell’adolescenza, la frustrazione e il desiderio di vendetta, e li porta alle loro estreme conseguenze. Forse proprio per questo piace molto a ragazze e ragazzi. Anche se la chiave è horror, quindi fantastica, la storia ha una fortissima analogia simbolica con il realismo del romanzo di Burgess e ci offre il ritratto di una ragazza emarginata e isolata dal mondo. In King la critica è ancora più radicale perché nemmeno tra il gruppo dei pari Carrie può trovare conforto, e la solitudine è cosmica.
E a proposito di solitudini cosmiche, non possiamo che approdare a Io sono leggenda di Richard Matheson, un romanzo lento, con un solo protagonista e di mezza età, scritto negli anni Cinquanta. Probabilmente quella vissuta da Robert Neville è la solitudine più disperante e totale della letteratura mondiale. In un mondo colpito da una sconosciuta epidemia muoiono tutti, uomini, donne e bambini, e durante il rigor mortis si trasformano in vampiri, che ritornano assetati di sangue. Neville, non sa come, è l’unico a non essere stato contagiato dal virus e ad essere ancora umano. Tutte le notti si batte per tenere lontani i «mostri» dalla sua casa bunker, e durante il giorno, armato di paletti di frassino, va a caccia dei nemici per «ridurne il loro sciagurato numero giorno dopo giorno». Inutile dire che il cimento è vano, i vampiri sono troppi e lui solo. La disperazione si fa largo lentamente di pari passo al consumo di alcol. Una domanda a un certo punto nasce spontanea, e tutte le sere i suoi nemici gliela pongono: «Robert, chi te lo fa fare? Apri la porta e lasciati mordere, diventa uno di noi». Ed ecco la chiave: ha senso lottare così disperatamente per la propria unicità, anche quando è la stessa che ci costringe alla più assoluta solitudine? I ragazzi continuano a premiare questo libro perché parla proprio di loro, senza mai citarli, senza averli come protagonisti, ma neanche come comprimari. Il messaggio di questo libro è chiarissimo: essere fedeli a se stessi è una impresa titanica. E chi più di un ragazzo o di una ragazza ha bisogno di sentire legittima la propria unicità? Il tema del difficile percorso della costruzione dell’identità è fondamentale, anche se mai esplicitato. Robert Neville combatte i vampiri proprio per conservare la propria identità, come i ragazzi nell’opposizione al mondo degli adulti costruiscono la loro.
Lo stesso spirito anticonformista, ma in questo caso più esplicito, meno simbolico, e meno tragico, lo troviamo per i lettori più piccoli in quello che ormai è diventato un classico della letteratura per ragazzi, Stargirl di Jerri Spinelly. Stargirl si è appena trasferita in una nuova città, e il primo giorno nella nuova scuola è tutto un bisbigliare. Tutti si chiedono chi sia quella ragazza un po’ bizzarra che se ne va in giro con un ukulele a tracolla e un topolino su una spalla, e che si è scelta il nome perché capace di rappresentarla al meglio in quel periodo specifico della vita. Di certo Stargirl non è una persona comune, proprio come Robert Neville, e come lui cerca in tutti i modi di rimanere fedele a se stessa, al suo modo di vedere e sentire il mondo, contro tutti. In questo caso la critica alla società è più indiretta, meno esplicita, ma comunque dichiarata: non c’è differenza sostanziale tra la segregazione del Buio oltre la siepe e quella che subiscono tutte e tutti gli Stargirl del mondo.
Se il terrore dell’anonimato, della dissoluzione della propria identità, è il dato che emerge con maggior forza dalle storie sinora affrontate, 1984 di George Orwell deve avere un posto d’onore in questa speciale famiglia. E questa immagine di sopravvissuto, di rottame umano che si trascina nel mondo, il protagonista ce la comunica sin dalla prima pagina del romanzo. Come in Noi i ragazzi dello zoo di Berlino è proprio una sensazione olfattiva che ci introduce l’alienazione totale. Anche in questo caso è un rientro a casa, il luogo che ogni uomo dovrebbe essersi scelto per la sua ospitalità e la sua accoglienza, il luogo che lo rispecchia. Quando apre il portone del suo palazzo, Winston sente «odore di cavoli bolliti e di vecchi tappeti sfilacciati.» Salendo le scale è osservato dalle telecamere del Grande Fratello ed ogni sua volontà è sacrificata a quella del dittatore. Antesignano delle contemporanee distopie che spopolano tra i giovani, 1984 ci mostra l’ultimo livello della disumanizzazione fatta sistema. Ma anche se più zombie che umano, Winston combatte, rischia, sapendo che non può rinunciare definitivamente alla propria umanità. Ed è proprio il senso tragico in uno scenario da apocalisse che non sembra lasciare speranze che invece entusiasma e dà il senso dell’andare verso, dell’avventura. Il successo di questo libro è una risposta molto chiara a tutti coloro che indicano nella difficoltà stilistica uno scoglio insuperabile per i non lettori. I ragazzi hanno antenne talmente sensibili e un palato così raffinato che amano cimentarsi con storie molto complesse, purché sappiano parlare alle loro corde più profonde; e 1984 è una di queste.
Di avventura e solitudine è ricco anche Nelle terre selvagge di Gary Paulsen, ormai un classico della letteratura per ragazzi negli Stati Uniti per fortuna ripescato recentemente da Piemme dopo un oblio troppo lungo e inspiegabile. Racconta di un ragazzo di 13 anni che precipita nelle foreste del Canada e deve cavarsela da solo, con l’aiuto dell’ingegno, dell’autocontrollo e di un’accetta che gli ha regalato la madre. I genitori di Brian sono divorziati e lui è al corrente di un segreto che non può confidare a nessuno. In questo caso i genitori non solo sono assenti, ma creano pure problemi. Quindi meglio sbarazzarsene, e misurarsi con la forza crudele ma rigenerante della natura. Il mito della natura e del ritorno ad essa come rito purificatorio è un topos della letteratura americana, e in questo caso Paulsen ce lo propone con la maestria del grande scrittore e conoscitore di quei luoghi, ritmi, episodi, che non cede mai alla facile rappresentazione romantica della vita nei boschi. La sensazione di sorpresa ci coglie ad ogni incontro, l’orso non reagisce come ci aspetteremmo, e nemmeno i lupi o l’alce. E lo stupore è il sentimento che proviene dall’inatteso, dal non banale, dal non omologato. Paulsen, in questo piccolo capolavoro, rende omaggio anche a una pratica ormai abbandonata: per passare dall’infanzia all’età adulta un tempo si veniva sottoposti a prove, per esempio abbandonati nel bosco, e se tornavi eri di fatto passato ad un altro stadio, eri cresciuto. L’autore ci ripropone un rito di passaggio, con tutte le tappe del caso, e i ragazzi apprezzano, perché sentono che crescere è anche un po’ morire, cambiare pelle, lasciarsi alle spalle un vecchio sé.
La stessa sensazione di avventura e di cambiamento la respiriamo in Qualcuno con cui correre di David Grossman. Il romanzo racconta infatti di un ragazzo e di una ragazza che non sanno nulla l’uno dell’altro, ma che il destino ha deciso di mettere in rotta di collisione. In una Gerusalemme che offre lo sfondo di uno scenario reale ma in qualche modo mitico, i due stanno compiendo la loro missione. Più quotidiana e quasi di routine quella di Assaf, più inconsueta, drammatica e nobile quella di Tamar, ma entrambe fondamentali per il loro futuro. Lui ha lo scopo di ritrovare il padrone di un cane abbandonato, lei quello di ritrovare il fratello finito nel giro della tossicodipendenza. Il cane sarà il loro tramite, poiché è proprio Tamar la proprietaria che deve essere rintracciata. In un gioco di punti di vista alternati, ogni capitolo è narrato da uno dei due attori, e noi siamo spettatori di un graduale coinvolgimento e trasformazione dei protagonisti. Da spettatore passivo trascinato dal cane, Assaf, a un certo punto, si lancia a capofitto nell’avventura di questa scoperta inattesa. Se è vero che il destino ci ha messo la zampino, è anche vero che ad ogni bivio incontrato è la scelta dei due protagonisti che permette l’incontro tanto desiderato. Questo è un libro importante. Per lo stile, per la rappresentazione che offre dell’adolescenza, per una certa rappresentazione del femminile (divergente rispetto alle ragazze dipendenti e fragili di tanta narrativa, non solo per ragazzi), perché mette in scena la capacità di ascolto, dell’altro e di se stessi, e la voglia di rischiare, di mettersi in gioco; è quindi un libro che non può mancare negli scaffali delle biblioteche dedicati ai ragazzi.
Naturalmente nemmeno Aidan Chambers può mancare nello scaffale ideale dedicato ai ragazzi, e Muoio dalla voglia di conoscerti, ultima sua fatica, men che meno. Questo libro è perfetto per chiudere il cerchio e salvare almeno in parte l’idea perduta di magistralità. Un po’ come in Gran Torino, film di Clint Eastwood anch’esso molto amato dai giovani, in questo romanzo viene recuperata la figura del grande vecchio che sostiene, consiglia e indirizza, senza dover per forza essere amico. Non è un vecchio saggio, distaccato e lontano, è un maestro un po’ fragile, che ha anche bisogno, il suo aiuto non è totalmente disinteressato e unidirezionale. La relazione si crea quando Karl, diciassettenne perdutamente innamorato di Fiorella, suona al campanello dello scrittore preferito della ragazza. Ad aprire è un vecchio stanco, malinconico e con qualche problema di salute che prende subito in simpatia il ragazzo. Lo scopo della visita è una richiesta di aiuto: Karl ha ricevuto dalla fidanzata una lista con 40 domande alle quali deve rispondere «in pompa magna». Lo scopo è quello di costringere il ragazzo a confidarsi, cosa che non ama particolarmente fare, e che gli sarà ancora più difficile per iscritto visto che è dislessico. La relazione inizia sulla base di un bisogno reciproco per spostarsi ad un livello più elevato, di grande affinità tra i due. Se è vero che non è propriamente un esempio di magistralità pura, quella basata sulla giusta distanza tra maestro e allievo, Chambers almeno fa dialogare i due mondi, un adulto a disposizione lo mette, con tutti i suoi limiti e i suoi bisogni. Un adulto che ascolta. Quasi un nonno, perché non siamo proprio in grado di superare quella legge nota agli antropologi per cui il passaggio di conoscenze deve saltare una generazione; peccato, ma comunque è molto meglio del nulla.
Per informazioni sul progetto scrivere a progettoxanadu@hamelin.net.
Oppure telefonare al N° 051 233401. Per comprendere meglio l’articolazione del progetto scarica e leggi il PDF allegato.
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