Il terzo giovedì del mese di novembre l’UNESCO ha istituito la Giornata Mondiale della Filosofia, che quest’anno cade il 18 novembre. Dal 2002 si celebra questa giornata per esaltare l’importanza della disciplina nella formazione delle e dei giovani, non solo dal punto di vista scolastico ma in quanto mezzo per lo sviluppo di un pensiero critico e indipendente, di una migliore comprensione del mondo, basata sui valori della democrazia e della libertà.
Per l’occasione pubblichiamo l’articolo di Martino Negri, docente di Letteratura per l’infanzia e di Didattica della Letteratura all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, tratto dal numero 50 della rivista Hamelin. Stavo pensando: albo e filosofia.
“Altro è vedere, altro è guardare”. Appunti sul rapporto tra immagini, infanzia e riflessione filosofica
Credo che l’arte sia una forma di meditazione per creatore e testimone e, come la meditazione, l’arte ci renda attenti.
Milton Glaser
Il fulcro del rapporto tra immagini, infanzia e riflessione filosofica risiede – io credo – nella forza interrogativa che le figure possono e sanno mostrare nell’incontro con lo sguardo infantile, sollecitando al contempo la dimensione del piacere della visione e la riflessione ermeneutica sull’oggetto sensorialmente esperibile che sta all’origine di tale piacere. Lo sguardo infantile, infatti, non è affatto ingenuo nel senso deteriore che il termine spesso assume, rimandando implicitamente a una mancanza di esperienza (del mondo, del linguaggio) o di abilità interpretativa, né in quello altrettanto riduttivo dell’incanto acritico per l’universo del visibile o l’esistenza tutta che nel senso comune accompagna l’idea dell’infanzia: è al contrario uno sguardo capace di attenzione minuziosa ai segni del visibile e l’ingenuità di cui è effettivamente portatore è da leggersi come apertura alle possibilità nella ricerca del significato, rappresentando un movimento dell’attenzione di segno opposto rispetto a quella chiusura pregiudiziale governata dalle esperienze di visione pregresse che troppo spesso negli adulti si cristallizza in filtro interpretativo obbligato.
La storia delle culture e, più recentemente, i visual studies ci insegnano quanto grande sia stato il contributo delle immagini nell’evoluzione del pensiero umano, non solo nei termini della possibilità di fermare attraverso dei segni e rendere così comunicabile l’esperienza vissuta, ma anche e proprio nell’aprire nuove piste della riflessione: si pensi a come l’invenzione della carta geografica abbia trasformato il modo di pensare lo spazio o a come la figura dell’albero della vita abbia consentito a Darwin di mettere a fuoco la sua idea rivoluzionaria sulla relazione genealogica tra tutti gli esseri viventi. Tuttavia, nonostante i passi compiuti, in questo senso, nell’ambito della riflessione filosofica e gli sforzi fatti nella direzione di un riconoscimento della centralità che un’educazione dello sguardo dovrebbe assumere nel curricolo formativo di ogni bambino e bambina, ancora si sottovaluta il potere che le immagini hanno come trampolino di lancio per il pensiero e innesco dell’intelligenza, punto d’avvio per una pratica di riflessione filosofica che nasca dalla meraviglia – una meraviglia interrogante – e si sviluppi attraverso la formulazione di ipotesi interpretative che possono riguardare sia il singolo oggetto visivo su cui l’attenzione si è concentrata, e i suoi possibili significati (non solo in relazione alle eventuali intenzioni del loro artefice), sia una dimensione più intimamente esistenziale dischiusa dall’incontro tra l’immagine in questione e la visione che il soggetto ha del mondo, e della vita stessa.
Molte delle grandi storie che hanno spinto gli esseri umani, attraverso le provocazioni dell’immaginazione a ragionare su temi intimamente filosofici relativi a tratti e limiti della natura umana, sono state suggerite ai loro autori da immagini che si sono imposte nella fantasia facendosi germe del racconto. È stato così per Mary Wollstonecraft Shelley, nella famosa notte della sfida letteraria lanciata per gioco da Lord Byron, da cui sarebbe nato Frankenstein, come la scrittrice racconta nella lettera di presentazione dell’opera scritta una quindicina d’anni più tardi, nel 1831 (Wollstonecraft Shelley, 2007, pp. 7-8):
Scese la notte su questi discorsi ed era già trascorsa l’ora delle streghe allorché ci ritirammo per dormire. Ma quando poggiai la testa sul guanciale non potei prendere sonno e neppure potrei dire che stessi pensando. L’immaginazione, senza che lo volessi, si impadronì di me guidandomi: le immagini si susseguivano nella mia mente vivide come non mi era mai accaduto prima, travalicando i confini consueti della fantasticheria. Vedevo – a occhi chiusi ma con la mente ben desta – lo studioso di una scienza sacrilega, pallido, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme. Vedevo l’orrida forma di un uomo disteso, poi una macchina potente entrava in azione, il cadavere mostrava segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale. Doveva essere terrificante: come terrificante sarebbe l’effetto di qualsiasi opera umana che riproducesse lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. L’artefice è atterrito dal proprio successo. Pieno d’orrore fugge da quella sua spaventosa creatura. Forse spera che, abbandonata a se stessa, la debole scintilla di vita che vi ha acceso si spegnerà; che quella cosa cui ha dato un’animazione così imperfetta sarà risucchiata nella morte. Potrebbe addormentarsi, certo che il silenzio eterno della tomba calerà sull’attimo di vita di quell’essere orrendo al quale egli aveva guardato come alla cuna della vita. Scivola nel sonno, poi si scuote, riapre gli occhi: la cosa è lì, in piedi, accanto al suo letto, ne sta aprendo le cortine e lo fissa con occhi giallastri e acquosi, ma penetranti. Io aprii i miei per il terrore. La visione mi possedeva a tal punto da darmi brividi di paura; volevo sostituire quelle fantasie orripilanti con la rassicurante realtà che mi circondava. La rivedo ancora adesso nei particolari: la stanza, il parquet scuro, la luna che tentava di penetrare attraverso le persiane chiuse, e la consapevolezza del lago ghiacciato e delle alte cime innevate delle Alpi al di fuori. Non riuscivo a scacciare quel fantasma pauroso, mi perseguitava.
Si tratta di un passaggio molto noto della lettera, che mi è parso tuttavia opportuno riportare con una certa generosità perché efficacemente rivelatore rispetto al potere che certe immagini hanno, nel presentarsi all’immaginazione, di assumere il ruolo di oggetti interroganti, testi visivi enigmatici capaci non solo di imporsi al pensiero, ma di attivarlo. “L’immaginazione, senza che lo volessi, si impadronì di me guidandomi” – scrive Mary – “le immagini si susseguivano nella mia mente”, “vedevo”, “vedevo”, “la visione mi possedeva”, “la rivedo ancora adesso nei particolari”, “non riuscivo a scacciare quel fantasma pauroso, mi perseguitava”: la forza con cui l’immagine del mostro da cui sarebbe nata una delle icone della modernità, nel suo porre domande sui limiti e la natura dell’umano, si impone nell’immaginazione della scrittrice è di un’intensità sconvolgente, come dimostrano gli indizi verbali qui evidenziati, ed è esemplare rispetto alla capacità che certe immagini hanno di rappresentare, con le domande che suscitano, il punto di scaturigine della riflessione e del racconto.
Gli esempi, in questo senso, potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Per l’impasto mirabile di leggerezza e profondità, serietà e umorismo che contraddistingue le sue invenzioni visive e narrative, credo sia Shaun Tan, attualmente, nell’ambito della letteratura verbo-visuale, l’autore che sa esplorare in maniera più consapevole, coerente e brillante la forza interrogativa che le immagini possono avere, singolarmente o in successione, sole o accompagnate da parole. E lo dimostrano non soltanto alcune sue dichiarazioni in merito, sulle quali ora avremo modo di soffermarci, ma anche la messa alla prova delle sue figure nell’incontro con lo sguardo e l’intelligenza interpretativa di bambini e bambine di diverse età e contesti culturali.
Anche Tan – come Mary Wollstonecraft Shelley – dichiara a più riprese come tante delle storie che ha scritto siano nate nei territori periferici della sua immaginazione, depositandosi in schizzi appena abbozzati o in figure più complesse rimaste a giacere silenziose per anni in taccuini abbandonati in un cassetto, prima di essere oggetto di un’attenzione specifica capace di coglierne e svilupparne il potenziale narrativo. Immagini “accidentalmente poetiche”, come avrebbe avuto modo di dire a proposito degli appunti visivi da cui sarebbero nate le narrazioni di Piccole storie di periferia; immagini impossibili da spiegare pienamente e pure capaci di agganciare l’attenzione e di sollecitare il pensare.
Parlando in termini generali, tendo a iniziare con una o due immagini che possono essere schizzi o vaghe immagini mentali, senza un’idea precisa di che cosa possano significare – un pesce fluttuante in una strada, un bambino che nutre un mostro in un capannone, un bufalo indiano che indica qualcosa. Poi inizio a giocare con le parole, provando a dire qualcosa intorno a ciò che sta succedendo, cercando al tempo stesso di renderlo ancora più misterioso.
Immagini come quelle che costituiscono la potente ossatura metaforica del suo capolavoro, L’approdo, romanzo senza parole chiaramente inteso a non chiudersi nella dimensione dell’allegoria – che presuppone una corrispondenza codificata tra figure e significati – aprendosi invece a possibilità molteplici di significato, che ogni lettore è chiamato a scoprire per conto suo attivando memoria e immaginazione, sensibilità e intelligenza, capacità di decentramento cognitivo ed empatia. Senza avere alcuna certezza di un approdo risolutivo, come testimoniano esemplarmente le parole di Martino, alunno di una quarta elementare dove ormai più di dieci anni fa ebbi l’occasione di condurre un progetto di lettura e di scrittura a partire proprio dal capolavoro di Tan (Negri, 2012, p. 26):
Posso dire una cosa sui libri di sole figure? Che però anche quando è finito il libro ti viene l’ansia perché non sai davvero cosa voleva dire l’immagine…
In questa incertezza, che è resistenza a un atto interpretativo capace di sciogliere ogni figura in un significato univoco – il “suo” significato – sta la dimensione pienamente letteraria del racconto per immagini di Tan, perché il potere della letteratura “non è di rappresentare, ma di rendere presente con la forza dell’assenza creatrice”, come scriveva Maurice Blanchot (Blanchot, 1969, pp. 55-56). Rendere presente, ma che cosa? Figure capaci di catturare l’attenzione e invitare alla sosta: una sosta che nasce dallo stupore della visione ed è alimentata dalla particolare sensibilità di ciascuno e dalla naturale propensione alla ricerca del significato che ci spinge a ipotizzare associazioni e collegamenti di varia natura tra i segni del visibile (gli elementi di cui la figura è composta), le nostre conoscenze e la nostra esperienza e visione del mondo. E in effetti, l’affermazione di quel ragazzino ci aiuta a cogliere la natura del dispositivo narrativo allestito da Tan, ideale per sollecitare la riflessione inquieta del lettore, promuovendo un atteggiamento di natura pienamente filosofica, fondato com’è sul senso della meraviglia e la ricerca del significato: un significato che può anche travalicare l’intenzione comunicativa, o la posizione filosofica dell’autore, avendo a che fare piuttosto con qualcosa che accade nel lettore durante l’esperienza della lettura, quando si esercita un certo tipo di attenzione su quanto si sta guardando, l’immagine che si sta leggendo.
A testimoniarlo ulteriormente, un altro episodio scolastico, legato alla lettura effettuata in una seconda media di un altro piccolo capolavoro di Tan, Regole dell’estate, nel contesto di un progetto di formazione da me ideato con Franco Passalacqua e Ilaria Tontardini per l’associazione Periplo nell’autunno del 2020, con la collaborazione di insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, medie e superiori, “Di-segni di lettura. L’albo illustrato contemporaneo: forme, temi, autori e itinerari didattici”.
Regole dell’estate è un albo di grande formato dove ogni apertura è caratterizzata da una pagina, a sinistra, contenente gli elementi verbali – una singola frase – e da una pagina, a destra, interamente occupata da una vivida scena dipinta a olio su tela dall’autore. Tan allestisce una sorta di diario delle avventure di due ragazzini – amici, fratelli? – condensato in una successione di piccole prese di coscienza, epifanie del pensiero, divertenti o inquietanti, comiche o drammatiche a seconda dei casi, sui diversi aspetti della vita di cui i due hanno fatto esperienza nel tempo incantato, per quanto non privo di rischi, dell’estate. Grazie all’incipit anaforico che le caratterizza – con l’esclusione della prima pagina e delle ultime, sorta di coda in cui si mostra più esplicitamente la dimensione anche diegetica del racconto, fino a quel momento nascosta dalle illuminazioni rapsodiche della memoria – ogni apertura rappresenta un’unità iconotestuale autonoma che dà forma a una specifica “regola”, il cui senso nasce dall’incontro/scontro tra il verbale e l’iconico che, presi in considerazione singolarmente, direbbero qualcosa di molto diverso, di incomprensibile o di assai più banale. Nell’albo di Tan ogni apertura propone dunque una scena apparentemente enigmatica dove il significato – il significato possibile dell’insieme, intendo – pare indicato proprio dall’interazione tra la figura e il breve testo verbale che la accompagna enunciando la “regola” cui questa si riferisce. Ma ogni scena, in realtà, si apre a possibilità interpretative plurime, se la si intende come una sfida ermeneutica, e l’ingenuità dello sguardo infantile ha offerto alle insegnanti che hanno proposto il volume delle vere e proprie perle, rivelando la potenzialità che le figure (certe figure!) hanno nel sollecitare la riflessione dei bambini.
Commentando un’immagine accompagnata dalla regola “Mai calpestare una lumaca”, dove si vede uno dei due bambini guardare la suola della propria scarpa e l’altro mettersi le mani nei capelli terrorizzato dalla vista di un tornado che avanza verso di loro sconvolgendo il paesaggio, Alice, una ragazzina di seconda media, ha fatto un’osservazione sorprendente:
Secondo me il tornado è il punto di vista della lumaca: per noi schiacciare una lumaca non significa nulla, ma per lei è una catastrofe.
La forza e l’originalità di questa interpretazione, che coglie un duplice punto di vista nell’incontro tra l’immagine e la sua chiave di lettura verbale – la prospettiva di un osservatore a pochi passi dal bimbo che schiaccia la lumaca e quella della lumaca schiacciata – sono notevoli, indicando un’interessante forma di decentramento cognitivo, e mostrano come certi testi visuali, o verbo-visuali se si considera l’importanza giocata dall’elemento verbale, per quanto esiguo, nell’indicazione di una via nel lavoro di lettura e interpretazione dell’immagine, possano sollecitare una riflessione che dalla figura oggetto dell’attenzione diventi riflessione sulle prospettive possibili dalle quali è possibile leggere il mondo, e viverlo, farne esperienza. Una riflessione sull’esistenza, nella semplicità del suo nocciolo essenziale. Come dimostra lo sviluppo della discussione innescata dall’osservazione di Alice:
Bea: Io do un’interpretazione diversa: piccole azioni possono avere grandi conseguenze.
Diego: Come buttare una bottiglietta di plastica in giro. Io non ci penso e poi, però, ci sono le isole di plastica… Riccardo: Per me il tornado è la colpa.
Leo: Prof., io ho una domanda che non c’entra… Perché se si uccide un uomo ci sono delle conseguenze, ma se si uccidono migliaia di formiche non succede niente?
Alice: Io sono vegetariana per questo. Anche i miei genitori non mangiano la carne, ma pesci e molluschi sì. Ho chiesto loro perché mangiano alcuni esseri viventi e altri no. Loro dicono che decidono in base al grado di intelligenza… Ma allora se uno non è intelligente, lo possiamo uccidere?
“Ma allora se uno non è intelligente, lo possiamo uccidere?”. Una domanda meravigliosa e potente che ci mette di fronte a una delle tante forme di ipocrisia con le quali, da adulti, si finisce col convivere senza troppa difficoltà. Commentando l’immagine, Tan osserva peraltro come la scena, nata originariamente con l’obiettivo di risultare semplicemente “divertente”, si presti molto bene a rappresentare l’idea di un mondo “governato da leggi arbitrarie” – qualcosa che i bambini possono apprezzare, corrispondendo almeno in parte alla loro stessa esperienza di “stranieri” in un mondo governato dagli adulti – che potrebbe spiegare una certa vulnerabilità a pensieri superstiziosi, che spingono a mettere in relazione cose che non hanno alcuna relazione alimentando illogici sensi di colpa rispetto alle proprie azioni.
Tan, d’altra parte, è maestro nel lanciare domande sull’incontro dell’individuo col mondo, sul senso dell’identità e dell’appartenenza, nonché sul rapporto tra gli esseri viventi, attraverso visioni narrative attraversate da un sottile umorismo che non teme l’ombra e l’inquietudine, né lo spiazzante e il magico. Basti pensare – pescando tra le pagine di Piccole storie di periferia – alla silenziosa, delicata eloquenza del saluto di Eric a chiusura del suo viaggio d’istruzione sul pianeta Terra, o allo spietato destino degli stecchi nell’omonimo racconto, che costringono i loro persecutori a porsi domande inattese e scomode, ma vivificanti; alla protagonista di L’albero rosso, nell’alternarsi di considerazioni esistenziali che compaiono di pagina in pagina, in forma di scene e frasi secche come aforismi; o, ancora, alle grandi lumache alle prese con una notturna e luminosa danza d’amore in Piccole storie dal centro. E si tratta di domande che anche i bambini più piccoli sanno cogliere, se si offre loro la possibilità di farlo e se si ha il coraggio di “perdere tempo” ad ascoltarli con paziente e curiosa disponibilità, come ha fatto Federica Gardella, proponendo Regole dell’estate nel contesto di una classe eterogena di scuola dell’infanzia, dove l’attenzione dei bambini si è concentrata sulla figura del corvo presente in ogni tavola dell’albo, fino a diventare stormo nelle pagine drammatiche che precedono la fine della storia:
Questo corvo [racconta Federica riportando l’accavallarsi e lo svilupparsi delle considerazioni dei bambini che si alimentano reciprocamente] li guarda dritti negli occhi, li guarda sempre, li sta spiando, è un corvo con una telecamera, il re dei corvi seguito da un esercito di corvi […], è un corpo creato in un laboratorio da uno scienziato pazzo nella fabbrica dei corvi […], la fabbrica dove vengono creati i corvi per spiare i bambini […], sì, perché sono i genitori… lo scienziato pazzo è il genitore che li vuole guardare…
Un passaggio che ci consente di chiudere circolarmente il discorso, rievocando la figura dello “scienziato pazzo” dalla quale siamo partiti – il dottor Frankenstein – che diventa qui figura dell’adulto, colto nello squilibrio del suo rapporto con l’infanzia, nel segno del potere e del desiderio di controllo. Intuizioni di estremo interesse. Intuizioni inquietanti, anche.
Intuizioni che ci dicono quanto le immagini, attivate dalle parole che le accompagnano, possano spingere il lettore a guardare e non, semplicemente, a vedere, e quindi invitare a pensare, come auspicava Antonio Rubino, vero e proprio cultore dello sguardo, inteso come strumento di lettura e comprensione del mondo, al principio degli anni Trenta (Rubino, 1933, p. 4):
Chi guarda vede, ma intensamente,
nella maniera la più intelligente!
Chi guarda vede, ma fa di più:
fissa le cose, pensandoci su!
Quelle proposte da Tan sono immagini che invitano a entrare nello spazio letterario, dove il pensiero prende la forma di figure, e a goderne, in primo luogo, offrendo in aggiunta la possibilità, bandita ogni fretta, di cimentarsi nell’esercizio del pensiero riflessivo e nel gioco dell’interpretazione. E ci aiutano a non dimenticare che nell’opera letteraria, come scrive Maria Teresa Andruetto riflettendo sul proprio lavoro di scrittura (ma credo che quanto scrive valga anche per gli autori di opere visive o verbo-visuali), la relazione tra dimensione estetica ed etica è ciò che consente, nell’arte, di esprimere una “verità senza dogmi”, la verità della metafora, del racconto, della messa in scena (Andruetto, 2014, pp. 68-69):
Per questo la letteratura non è il luogo della certezza, ma il territorio del dubbio. Niente è più liberatorio e rivoluzionario della possibilità che ha l’uomo di dubitare, di mettersi in discussione.
Di percorrere le vie della filosofia fin dall’infanzia, potremmo dire, a partire dall’incontro con le figure, assumendo uno sguardo curioso e interrogante, attento ai segni del visibile: uno sguardo che non si lasci appagare e addormentare dalle prime e più semplici impressioni della visione, trovando nell’immagine e nel lavoro di ricerca del significato che questa può dischiudere un’occasione di riflessione anche sul proprio sentire, così come sul proprio porsi in relazione col mondo e col modo in cui ciascuno se lo racconta.
Immagine di copertina: Shaun Tan, Moonfish, edition of 500, image approx 30 x 45cm
https://www.shauntan.net/
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