di Maria Greco – Responsabile settore scuola del Centro per il libro e la lettura
Riflettendo sul tema di oggi, la Giornata internazionale della Donna, mi inceppo in un dilemma, noto da tempo e sotto gli occhi di tutti: “Perché, sfogliando i testi di letteratura, la presenza delle donne autrici, delle poetesse, delle letterate è quasi assente?”. Poche, pochissime, di sicuro nessuna di loro è riuscita a ricavarsi uno spazio più ampio di una pagina, quella che di solito è riservata agli autori minori. Parlo, in particolare, della letteratura italiana e, per formazione e “deformazione”, della letteratura greca e di quella latina. Ma, mentre nell’antica Grecia e nell’antica Roma possiamo rintracciare un motivo “sociale”, in quanto la quasi totale assenza di donne dedite alla letteratura e alla poesia si deve certamente ai canoni letterari imposti dalle politiche patriarcali, che hanno ammutolito a lungo i canti delle donne, tant’è che lo stesso Euripide fa affermare al coro di Medea, che solo un piccolo gruppo di donne non è stato estraneo alle Muse (vv. 1080 e ss.), non si può dire lo stesso della letteratura italiana, che sembra mettere a tacere la donna anche in tempi più recenti, quasi a sottolineare, allora come ora, che l’ispirazione, sebbene di genere femminile, fosse quasi esclusivamente prerogativa maschile.
Durante gli anni scolastici, questa assenza passa quasi sempre inosservata (solo alcune fanciulle che hanno letto Simone de Beauvoir potrebbero accorgersi di questa discriminazione) e se capita che qualcuna/o la faccia notare, la risposta più comune è: “Le donne non hanno scritto grandi opere al pari dei loro colleghi uomini”.
Ma è davvero così?
In secoli di storia della letteratura, la donna è stata scritta e raccontata dall’uomo, come se il “femminile” potesse avere voce solo attraverso la parola maschile e così nel mondo della letteratura la donna vive come sdoppiata: da un lato, è la musa che ispira il Poeta, dall’altro, quando le si consente l’accesso al mondo letterario in veste di soggetto scrivente, si trova ai margini.
Nel mondo antico esistettero donne colte e raffinate, ma sono state sempre ignorate perché, come si è accennato, scrivere era “cosa da uomini” e le donne “non erano portate per le lettere” e non era loro concesso recitare a teatro, se non per spettacoli lascivi.
In realtà nel mondo classico greco e romano esistevano tante poetesse, donne dall’animo sensibile apprezzate da un vasto e colto pubblico.
Partendo, in ordine cronologico, con un excursus cha darà rilievo a “rappresentanti” delle varie epoche, dall’antica Grecia ad oggi, ricordiamo:
Pompei, affresco 55-79 d.C.
SAFFO
Colei che per l’Antologia Palatina, era la “decima musa” dopo nove poeti lirici, definita con questa perifrasi apparentemente elegante perché la parola poeta declinata al femminile (ποιήτρια) non esisteva (sarà attestata per la prima volta, senza ironia, nelle epigrafi di età ellenistica). Colei che per prima tra i lirici arcaici interpretò il sentimento d’amore con l’interiorità tipica femminile. Nacque e visse nell’isola di Lesbo, tra la fine dell’VIII e l’inizio del VI secolo a.C. Si sa che sposò un ricco uomo e che ebbe una figlia, Cleide. Un frammento ne paragona orgogliosamente la bellezza a fiori d’oro. Una diffusa tradizione voleva che Saffo fosse morta gettandosi dalla rupe di Leucade perché il giovane Faone aveva respinto il suo amore e la stessa tradizione le negava ogni fascino nell’aspetto. Sappiamo che si tratta in entrambi i casi di dicerie: Platone, infatti, definì Saffo “la bella”. Le maldicenze dei comici la accusarono di omosessualità: in realtà oggetto esclusivo dell’amore di Saffo è una schiera di fanciulle che lei ospitava nella sua casa, nel suo tìaso, in senso lato una comunità a scopo religioso e culturale, devota a una particolare divinità. Nell’ambiente raffinato dell’isola di Lesbo, al tìaso erano attribuiti l’educazione e l’inserimento delle fanciulle nella società delle donne sposate; particolare importanza (oltre alla danza, al canto e alla poesia) rivestiva l’educazione dei sentimenti per poter affrontare la vita adulta e il matrimonio: l’eros omosessuale di Saffo rientrava, dunque, in una realtà comunemente accettata e considerata normale. Testimonianza di quanto ci siamo involuti.
Della sua copiosa produzione, suddivisibile in due gruppi (epitalami e poesia “autobiografica”), rimangono solo frammenti grazie ai quali, però, riusciamo a carpire la grandezza della poetessa di Lesbo, le sue emozioni d’amore, la sua devozione ad Afrodite e alle sue fanciulle, attraverso la memoria degli affetti che si allontanavano da lei, attraverso l’esperienza dell’eros: “Sei venuta, e hai fatto bene: io ti volevo, e hai refrigerato il mio cuore ardente di desiderio” (fr. 48). Descrive tutta la sua interiorità, scandagliando la sua anima, attraverso una dettagliata “psicologia dell’amore”: “Tramontata è la luna e le Pleiadi anche. È già mezzanotte. Così svanisce pure la mia giovinezza e nel mio letto resto sola” (fr. 168b); e ancora: “L’amore mi ha lacerata l’anima con la stessa violenza con cui il vento del monte s’abbatte sulle querce“ (fr. 47).
Francesco Jerace, Nosside. Busto in marmo
NOSSIDE DI LOCRI
Contemporanea di Anite di Tegea, poetessa epigrammista di età ellenistica, Nosside fu anche lei una epigrammista di area dorica. Nata a Locri Epizefiri, sulla costa della Calabria, Nosside è stata un’artista nota per la sua totale dedizione all’universo femminile, tanto che i poeti la soprannominarono “Voce di donna” (Antologia Palatina IX, 29). Non c’è da stupirsi di questa vena poetica: in un primo epigramma lei stessa si dichiara erede dell’arte di Saffo e come erede le toccarono anche le accuse di omosessualità e prostituzione. Il più noto e bello dei suoi dodici epigrammi è un’ardente esaltazione dell’amore, motivo dominante della sua opera, in cui la poetessa si automenziona ed esplicita le sue affermazioni programmatiche: “Nulla è più dolce dell’amore, ogni altra felicità gli è seconda; dalla bocca sputo anche il miele. Così dice Nosside; solo chi non è amato da Cipride ignora quali rose siano i suoi fiori” (Antologia Palatina, V, 170).
Particolare di Pietro di Francesco degli Orioli, Sulpicia
SULPICIA
L’unica poetessa romana di cui ci siano giunte alcune poesie. Vissuta nel I secolo d.C., ai tempi di Augusto, epoca di grande fermento letterario, apparteneva alla classe aristocratica. Sulpicia rappresenta un importante documento dell’emancipazione raggiunta all’epoca dalle donne; la sua produzione comprende sei brevi elegie, in tutto quaranta versi, tramandate come un ciclo di carmi contenuto all’interno del libro 3 del Corpus Tibullianum: sono appassionati messaggi d’amore, vere e proprie grida dell’anima, scritti dalla poetessa, sulla cui reale esistenza un tempo si era dubitato, essendo stata avanzata l’ipotesi che non fosse mai esistita e che i componimenti a lei attribuiti fossero esercitazioni letterarie di poeti del circolo di Messalla. La prima elegia (Finalmente è giunto l’amore) funge da introduzione: Sulpicia non si cura della buona reputazione, vuole parlare liberamente del suo amore. Le altre sono ‘messaggi’ d’amore diretti a Cerinthus, il suo amato: Sulpicia parla di un viaggio che contro la sua volontà deve affrontare per seguire lo zio e tutore Messalla nella sua proprietà di Arezzo, e che rischia di farla stare lontana da Cerinthus nel giorno del suo compleanno. Ma nell’elegia successiva, la poetessa annuncia che il viaggio è stato annullato e lei può festeggiare, così, il compleanno con il suo amato. In Sulpicia ricorrono, dal punto di vista femminile, le stesse situazioni tipiche degli altri elegiaci: l’infedeltà dell’amato, che la tradisce con un’altra, per giunta una donna di bassa condizione sociale, e la malattia della poetessa: “O Cerinthus, non hai una pietosa preoccupazione per la tua ragazza, perché la febbre ora tormenta il mio corpo sfinito? Ah, non desidererei di sconfiggere l’odiosa malattia se non pensassi che anche tu lo vuoi! Ma che mi gioverebbe sconfiggere la malattia se tu puoi sopportare il mio male con animo insensibile?” (elegia 3.17).
COMPIUTA DONZELLA
Figura enigmatica, alcuni critici ne mettono persino in dubbio l’esistenza. Nome letterario di una poetessa del XIII secolo, della quale ci sono rimaste solo notizie frammentarie e alla quale vengono attribuiti tre sonetti; la sua importanza storica è notevole: si tratta probabilmente della prima donna che ha scritto componimenti in lingua volgare italiana. Nobile, era una donna colta, amica di Guittone d’Arezzo, che la riteneva una stimata rimatrice. Eppure, di questa donna coraggiosa, nelle storie letterarie quasi non si trova traccia.
Lo stesso Guittone la addita come “Donna” Compiuta, non più donzella, in una lettera/panegirico, per sottolineare probabilmente “signora maritata”. I suoi sonetti sono in stile trovadorico-provenzale e rivelano la conoscenza approfondita della scuola siciliana. A la stagione che ‘l mondo foglia e fiora, Lasciar voria lo mondo e Deo sevire e Ornato di gran pregio e di valenza ci sono stati tramandati da un unico codice, il Canzoniere Vaticano, la più ricca raccolta antica di poesia italiana delle origini, ovvero di poeti siciliani e prestilnovisti, fra i quali Compiuta è l’unica donna.
“Amantata non son como voria di gran vertute né di placimento; ma, qual ch’i’ sia, agio buono volere di servire con buona cortesia a ciascun ch’ama sanza fallimento: ché d’Amor sono e vogliolo ubidire” (Ornato di gran pregio e di valenza).
Particolare del ritratto di Gaspara Stampa, collezione di stampe di Achille Bertarelli
GASPARA STAMPA
Orfana in tenera età, Gaspara Stampa si trasferì con la madre e i fratelli a Venezia, dove si dedicò agli studi letterari e musicali. In breve tempo divenne famosa come poetessa e cantante e fu apprezzata per la sua bravura, l’eleganza e la bellezza. La voce più autentica e spontanea della poesia erotica italiana del sedicesimo secolo, trascorse la sua breve vita di donna libera e spregiudicata tra amori fugaci e appassionati, tra i quali dominò la tormentosa relazione d’amore, poi troncata dall’amante, col conte Collaltino di Collalto, di cui pianse la lontananza quando il conte andò in Francia al servizio del re e poi l’abbandono. Così Benedetto Croce si espresse sulle Rime di Gaspara Stampa: “Il canzoniere di Gaspara Stampa non attirò l’attenzione dei contemporanei, troppo letterati per gustare quelle disadorne rime, e poco sensibili alla commossa realtà umana; rimase obliato per circa due secoli […] Ma ora […] ha ripreso le genuine sembianze e piace in quello che vuol essere ed è: non già alta poesia, ma, come si è detto, un epistolario o un diario d’amore“. La struttura di questo diario d’amore è un chiaro riferimento alla poesia petrarchesca: il canzoniere si apre con un proemio, Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, e si chiude con una poesia di pentimento. L’imitazione di Petrarca si nota in varie parti del suo canzoniere: “Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto; piangerò, arderò, canterò sempre… ” (Giochi verbali sulle pene d’amore). Ciò che conferisce grande fascino ai suoi versi è l’ispirazione sincera, che risiede specialmente nella forza e nel tormento della passione: “A poter sostener tanto dolore, giovane e donna e fuor d’ogni ragione, massime essendo qui senza ‘l mio core e senza voi a mia difensione, onde mi suol venir forza e vigore?“ (Rimandatemi il cor).
Dalla fine del Cinquecento in poi, la poesia femminile abbandona i canoni petrarcheschi e dà voce ad aspetti più realistici, con i versi, ad esempio di Veronica Franco. Il Seicento, secolo che da un punto di vista letterario (e non solo) esaspera il formalismo e il “concettismo” (cfr. il marinismo e il barocco), registra la scarsità di presenze femminili nella letteratura e nel diciottesimo secolo molte dame decidono di aderire all’Accademia dell’Arcadia. Con il Romanticismo prima e il Verismo poi, la voce femminile torna a farsi sentire prepotente, con Matilde Serao e Grazie Deledda, unico Nobel italiano della Letteratura “femminile” (1926). Indagherò brevemente la sua poesia “culturale”, in quanto la scrittrice verista viene ricordata soprattutto per i suoi romanzi e le sue novelle.
Grazie Deledda (archivio L’Unione Sarda)
GRAZIA DELEDDA
A soli 22 anni, Grazia Deledda scriveva un componimento in lingua sarda dal titolo America e Sardigna. In questo componimento giovanile (e inedito), si nota una importante riflessione culturale circa il concetto di lingua e di multiculturalismo. Ricordiamo che l’autrice sarda ha sempre cercato nelle sue opere di mettere in luce la Sardegna con i suoi misteri, paesaggi, tradizioni, con l’intento di far conoscere una terra “barbara” al Continente (la penisola italiana), in un periodo in cui la Sardegna era ancora considerata, appunto, una terra “straniera”. Qui il testo. La scrittrice si rivolge direttamente alla lingua sarda, intesa come messaggera per la sua vicinanza al latino, al fine di poter solcare i mari e manifestarsi ai linguaggi altrui, facendosi conoscere e scoprire nella sua interezza, sottolineando il topos letterario della lingua messaggera: la lingua evidenzia la necessità di confronto culturale con il Continente, di integrazione ed anche di accettazione della diversità.
“Se per ogni artista è indelebile l’impronta delle prime sensazioni, queste lasceranno solchi tanto più profondi quanto più grande è in essa la virtù di eccitare la sensibilità“ (Mercede Mundula a proposito della poesia “rude e pensosa” di Grazia Deledda).
Il mio excursus poetico al femminile termina con un Premio Nobel. Dal Novecento in poi, infatti, le voci poetiche femminili sono sempre di più e più facilmente rintracciabili, da Ada Negri a Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio), ad Antonia Pozzi, ad Amelia Rosselli ad Alda Merini…
Suggerisco la consultazione di questa raccolta per chi volesse approfondire le autrici, scrittrici e poetesse della nostra letteratura italiana:
http://www.accademia-alfieri.it/pagine/donne1.htm
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