In occasione della Giornata Internazionale della Lingua Madre, il 21 febbraio, abbiamo riunito materiali e bibliografie con libri in diverse lingue per promuovere il multilinguismo; disponibili a questo link. Qui di seguito troverete un approfondimento realizzato da Maria Greco, responsabile settore scuola Centro per il libro e la lettura, sulla lingua italiana e le sue evoluzioni, per ricordare di difendere la ricchezza culturale che risiede in ogni lingua. 

 

 

di Maria Greco, responsabile settore scuola Centro per il libro e la lettura

Perché, in occasione della Giornata Internazionale della Lingua Madre, scrivere un articolo in difesa dell’Italiano, una apologia, quasi a trattare l’Italiano come una persona? Il sostantivo che dà il titolo all’articolo non è stato scelto a caso: apologia è un discorso a difesa o esaltazione di una persona oppure di una dottrina religiosa o politica. Mi piace pensare all’Italiano come a una persona: viva, che muta, si trasforma, ci permette di comunicare, di ritrovarci in una identità comune, ci regala il senso di appartenenza ad un popolo che ha lottato per ottenere l’unità politica e, quindi, linguistica. Ecco perché in questo articolo userò la lettera maiuscola quando parlerò della nostra lingua.

È con noi da sempre, nelle sue evoluzioni.

Breve excursus storico della lingua italiana. Apologia del Latino.

Stabilire quando nasce o da quando si comincia a parlare la lingua italiana non è cosa semplice. Prima di affrontare la questione occorre soffermarsi brevemente sulla nostra vera lingua madre, il Latino: l’Italiano non può esistere senza il Latino. Inconsapevolmente (o consapevolmente) oggi noi parliamo il “Latino del XXI secolo”: certamente con tante e tali trasformazioni che non siamo più in grado di capire un testo latino, ma il dato fondamentale è che non c’è stata nessuna soluzione di continuità nel passaggio dal Latino all’Italiano, nessuna interruzione, bensì una trasformazione. Ecco perché ritengo errato parlare di “lingua morta” quando si parla del Latino. Il suo espandersi, da idioma proprio di una piccola comunità a lingua di un impero, ha infatti coinciso con l’estinzione di molte altre. A cominciare dall’Etrusco per finire con le lingue appartenute a Galli, Iberi, Lusitani, Daci… Alla maniera dell’odierno killer english, come alcuni studiosi amano definire la lingua che un tempo fu propria solo dell’lnghilterra e che oggi si espande in aree sempre più lontane da quella originale, anche il Latino ha “ucciso” molte lingue che erano vive e floride fino al suo avvento. Dopo di che anch’esso è andato incontro alla “morte”, molto lenta, ma soprattutto parziale, direi solo apparente, visto che questo idioma sopravvive nelle numerose lingue romanze che da esso sono derivate e che ad esso sono regolarmente tornate nei secoli successivi attraverso l’educazione e la cultura. Sia pure modificati dal tempo e dalle vicende storiche, lessico e struttura del Latino continuano a vivere nell’Italiano, nel Francese, nel Rumeno, nello Spagnolo, nel Portoghese… E anzi le parole latine hanno massicciamente “contagiato” perfino la lingua attualmente più potente fra quelle parlate al mondo, l’Inglese, che pur avendo origini germaniche, per il 70% del proprio lessico presenta termini di origine variamente latina. Come si può, dunque, considerare “morta” una lingua come questa? Il Latino non è mai realmente morto. Non solo, infatti, ha continuato a vivere nelle lingue romanze, metamorfosandosi, ma in tutta la sua purezza (o quasi) ha continuato anche ad essere usato come lingua di cultura: strumento di comunicazione fra dotti, scienziati, diplomatici, professori e studenti. Una lingua che ha avuto una tale funzione non può essere seriamente definita “morta”. Anzi, se si considera tutta la ricchezza culturale che dal Latino si è generata, attraverso testi che nei secoli si è continuato a leggere, studiare e commentare, tanto che gran parte del nostro bagaglio filosofico, letterario e scientifico trova in questi le proprie basi, la lingua dei Romani appare paradossalmente più viva di tanto Italiano, sciatto e grossolano, che oggi risuona nella bocca di certi politici o comunicatori.

Nel tempo, diverse volte mi è stato chiesto da alunne e alunni: “Perché studiare lingue morte, come il Latino e il Greco?”. La mia risposta è sempre stata secca: “Poni meglio la domanda…Queste lingue non sono affatto morte”. E lo dimostravo non solo con bei discorsi persuasori e avvincenti (di stampo filosofico-aneddotico), ma anche con la pratica della comparazione linguistica. Ovviamente l’Italiano non deriva da quel Latino “alto”, il cui teorizzatore e simbolo vivente è Cicerone: questo Latino letterario è quello che si impartisce agli studenti liceali, “classico”, appunto, che si sviluppa in un’epoca (l’ultimo periodo repubblicano) in cui impera la cultura della parola regolata e della norma, una vera e propria “ideologia grammaticale”. Quando Petrarca si scaglia contro il latino di Dante (che è quello medievale) e pochi decenni più tardi Lorenzo Valla si impegna a restaurarne le raffinatezze, hanno in mente appunto il Latino letterario che, con la caduta dell’Impero romano, quindi a partire dal V sec. d.C., restò solo lingua scritta, mentre, sulla base delle diverse varietà di Latino parlato nelle molte regioni dell’Impero, si affermarono tante lingue diverse, tra cui l’Italiano che deriva, dunque dal Latino comunemente parlato a Roma. Nella nostra lingua sono tanti i latinismi, (o parole “di trafila dotta”), che conservano più fedelmente l’originaria forma latina (ad esempio, dal lat. pensum= peso, derivano due verbi, pesare e pensare: la prima è una parola popolare, la seconda è un latinismo, nell’accezione di soppesare una decisione, meditare, quindi riflettere; da vitium derivano vezzo (“trafila popolare”) e vizio, più comune, preso dal “Latino dotto” e così via. Stabilito che il Latino non è mai morto, sicuramente si è trasformato, prima in quello che si definisce volgare, poi, attraverso le diverse “Questioni della lingua”, in quello che oggi ci identifica da un punto di vista linguistico.

Molti pensano che la lingua italiana possa essere definita tale a partire da Dante, dalla sua Commedia: questo perché si ritiene che all’inizio di ogni tradizione linguistica ci sia un grande testo letterario. Un esempio lampante ci è fornito dalla letteratura greca, che non comincia con Omero e i suoi poemi come i più credono, ma con le tavolette di argilla risalenti al 1500 a.C., che contenevano la contabilità dei palazzi reali di Creta e di vari luoghi della Grecia continentale. È così anche per l’Italiano: prima di arrivare ai testi letterari, occorre passare attraverso testi che hanno una motivazione pratica, estremamente concreta; il primo documento in cui è evidente un uso consapevole del volgare distinto dal Latino sono i cosiddetti “Placiti campani” (o Placiti Cassinesi), formule testimoniali che risalgono al 960-963 d.C. sull’appartenenza di certe terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa Aurunca e Teano. Il primo è il famoso Placito capuano, la cui pergamena contiene la storica frase Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trent’anni le possette parte Sancti Benedicti. Si è sicuri della significanza di questo documento perché questa frase è inserita in un contesto latino, c’è quindi un chiaro stacco tra Latino e Italiano, c’è la piena consapevolezza di utilizzare un codice diverso. Nello stesso tempo la lingua è perfettamente autonoma rispetto al Latino non solo per l’uso di alcune parole che hanno già, come oggi, un significato tecnico-giuridico, come parte (oggi si dice le parti in un processo), ma anche nella struttura caratteristica dell’Italiano colloquiale che ha l’espressione le possette, in cui notiamo quella definita dai linguisti “dislocazione a sinistra”, ovvero una anticipazione di un elemento della frase attraverso un pronome atono (kelle terre….le possette). Non è una ridondanza, bensì un elemento tipico dell’Italiano parlato (Es. Questo problema lo dobbiamo risolvere – Dobbiamo risolvere questo problema).

Il volgare come lingua letteraria comincia a diffondersi più tardi, all’inizio del XIII secolo, grazie al Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi e alle laudi religiose di Jacopone da Todi. A queste opere, scritte in volgare umbro, seguono quelle dei poeti siciliani della corte di Federico II di Svevia. La poesia dei Siciliani ha un tale successo che, per diffonderla anche nella Penisola, dei copisti toscani copiano alcune poesie e le traducono in volgare fiorentino. In Toscana, mezzo secolo più tardi, il volgare diventa definitivamente lingua letteraria, con pari dignità rispetto al Latino, grazie alla corrente poetica del Dolce Stil Novo. I poeti toscani del Dolce Stil Novo riprendono e ampliano i temi della poesia siciliana. Tra i vari volgari italiani, il tosco-fiorentino si afferma come varietà di riferimento, sia perché i tre più grandi e famosi scrittori in volgare del secolo, Dante, Petrarca e Boccaccio, sono tutti toscani, sia perché nel quattordicesimo secolo Firenze diventa la città italiana più importante a livello economico e culturale.

Ma è nel Cinquecento, quando il volgare si afferma definitivamente come lingua, che si avverte la necessità di dare risposte concrete al dibattito sulla questione della lingua, già sollevato da Dante nel suo trattato De vulgari eloquentiain questo scritto, il pensatore fiorentino teorizzò per la prima volta gli aspetti del volgare italiano, cercandone di comprendere le origini e di stabilire quali fossero i canoni per un buon uso stilistico della lingua. Infatti, per Dante, la lingua italiana prima di tutto doveva essere una lingua di uso colto e letterario, che non ricadesse nei canoni della bassezza popolare. La soluzione sarà proposta da Pietro Bembo nelle sue Prose della volgar lingua (1525): si tratta di un dialogo in tre libri, l’ultimo dei quali contiene una grammatica italiana, in cui l’autore indica i modelli linguistici non nel fiorentino parlato ai suoi tempi, ma in quello letterario del Trecento di cui e Boccaccio e Petrarca sono i massimi esponenti rispettivamente per la prosa e la poesia; questa impostazione, è detta anche “Classicismo del volgare”, in quanto basata sugli esempi degli scrittori “classici” del volgare. 

Ma è il 1612 la data fondamentale nel processo di formazione della lingua italiana, anno in cui esce il Vocabolario della Crusca, strumento innovativo che gli Accademici progettano e realizzano per diffondere il fiorentino trecentesco. Una summa di facile consultazione, in quanto in ordine alfabetico, che ha consentito di avere un modello linguistico nazionale almeno per quanto riguarda la lingua scritta.

Fino al 1861, anno dell’Unità d’Italia, la ricerca di un sistema linguistico nazionale era stato appannaggio degli scrittori e del ceto colto. Dall’anno dell’unità politica la lingua diventò un problema sociale e fu allora che il governo italiano si pose il problema di un modello linguistico da proporre a tutti i cittadini del nuovo Stato. Inizialmente Alessandro Manzoni nel 1868 pubblicò un saggio intitolato Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla. Ora era chiaro che l’Italiano doveva diventare un mezzo veicolante e coercitivo all’interno del nuovo paese. Si dovrà aspettare ancora qualche decennio finché esso lo divenne davvero, ma gli studi di Manzoni rimangono comunque prestigiosi e fondamentali all’interno dell’apparato linguistico che oggi giorno parliamo. I Promessi Sposi sono l’esempio di come gli italiani dovrebbero e potrebbero parlare, ma la storia della/di una lingua non è mai ferma, essa è in continua evoluzione, tanto che a 100 anni circa dall’Unità Pierpaolo Pasolini, regista, scrittore, pensatore, teorizzò una nuova questione sulla lingua italiana: dai suoi studi pubblicati egli affermava la nascita di un neo-Italiano, laddove la capitale linguistica italiana non era più Firenze o Roma, bensì il cosiddetto triangolo industriale formato da Milano, Torino e Genova con lo sviluppo di una nuova lingua tecnologica, legata alla nuova classe capitalistica, segnata da un linguaggio più grezzo e meno espressivo. Il nuovo Italiano portò alla semplificazione sintattica del periodo, con una netta e drastica diminuzione dei latinismi e con la prevalenza dell’influenza tecnico-scientifica rispetto a quella della letteratura, con una conseguente perdita di prestigio della lingua. Dal pensiero di Pasolini, l’ultimo a teorizzare sulla questione della lingua, si evince che ancora non esiste una lingua nazionale per tutti gli italiani, che si avrà solo alla fine degli anni Settanta, quando i mezzi di comunicazione di massa orali avranno inciso su tutta la popolazione, portando così oralmente una lingua modello. Questo ritardo è stato il caro prezzo del lungo analfabetismo che ha caratterizzato il nostro Paese.  

 

Apologia dell’Italiano.

Basterebbe conoscere più approfonditamente la storia della nostra lingua per prenderne le “difese”, a prescindere da tutto il resto.

Tuttavia, cercherò brevemente di passare in rassegna due dei “fenomeni” che, a mio avviso, impoverendo il nostro lessico, “inquinano” la nostra lingua: l’uso, non sempre necessario e spesso scorretto, di alcuni forestierismi (in particolare anglicismi) e il linguaggio giovanile.

Prima di affrontare la questione degli anglicismi e il loro adattamento linguistico, è bene capire in che forma le parole straniere entrano nell’Italiano. Le possibilità sono due: o vengono prese così come sono e inserite nella nostra lingua (in questo caso si parla di prestiti integrali); oppure possono subire degli adattamenti e delle vere e proprie traduzioni (per esempio, besciamella, dal francese bechamelle), in questo caso si parlerà di prestiti adattati e di calchi. Mentre fino al XIX secolo si preferiva adattare le parole straniere alla fonologia e alla morfologia dell’Italiano, successivamente è prevalsa l’abitudine di introdurre tali parole così come sono nelle lingue d’origine. Il termine prestito non è molto felice: si presuppone che la parola, dopo un po’, venga rispedita al mittente; sarebbe più corretto parlare di innesti o di “doni stranieri”.

Fino agli anni Settanta del Novecento, gli italiani avevano più dimestichezza con il Francese, che era la lingua più studiata nelle scuole: questo spiega perché ancora oggi molte parole francesi sono presenti nel nostro lessico. Ci sono parole (come il verbo mangiare) che sottolineano l’influsso che il Francese ebbe in Italia fin dal Medioevo, anche se ormai oggi gli anglicismi prevalgono. L’incontro tra l’Italiano e l’Inglese avvenne più tardi ed è piuttosto recente: dobbiamo, infatti, risalire alla fine della Seconda guerra mondiale e al nuovo assetto geopolitico del mondo. A partire da quel momento l’espansione dell’Inglese o, per essere più precisi, dell’angloamericano, diventa inarrestabile e pervasiva. Com’è noto, uno dei motivi del successo di questa lingua, specie nei linguaggi tecnico-scientifici, è rappresentato dalla brevità e dall’espressività di certe parole come boom, fan, look, pub, zoom… Alcuni settori sembra non possano farne a meno, come quello della cosiddetta neotelevisione: fiction, reality show, decoder, share, zapping, slogan, spot…; quello dell’informatica: pc, tablet, download, file, home page, mouse…; dell’economia: project manager, stock option, deregulation, advisor… Persino il mondo dei convegni scientifici va riempiendosi di inutili parole inglesi: abstract per ‘riassunto’, call for papers per ‘richiesta di intervento’, coffee break per ‘pausa caffè’… Nel campo delle scienze è recente la “conversione” del linguaggio medico, tradizionalmente restio all’uso dei forestierismi: si pensi a voci come checkup, day hospital, pacemaker, tac total body, bypass (da cui il verbo bypassare). Ed è proprio questo verbo che introduce uno dei problemi più vivi che riguardano l’interferenza tra l’Inglese e l’Italiano oggi: se partiamo da basi inglesi come download e backup, possiamo formare dei verbi con desinenza italiana, ovvero downloadare e backuppare, per fare solo due esempi. In questo modo si crea un conflitto insanabile tra la grafia e la pronuncia; pronunciando, infatti, all’italiana seguendo alla lettera la grafia (dovnloadare, baccuppare) si produce una pronuncia mostruosamente cacofonica, che non corrisponde ad alcuna realtà; d’altra parte, pronunciando all’inglese (daunlodare, beccappare) si avrebbero parole mezze inglesi e mezze italiane, si produrrebbero altre mostruosità. Forse la soluzione migliore potrebbe essere quella di ricorrere ad una perifrasi con un verbo italiano generico come fare e mantenere il sostantivo inglese: fare il backup o fare il download. I problemi dell’interferenza Italiano-Inglese non finiscono qui: nel linguaggio sportivo, ad esempio, in Italia si chiama mister l’allenatore che in Inghilterra è il coach, si parla di footing invece di jogging; così nel campo dell’abbigliamento (trench, smoking, tight, body…) sono indumenti che non hanno alcuna corrispondenza con l’inglese vero. Abbiamo, poi, inventato beauty center e beuaty farm, slow food come alternativa polemica al fast food e il long seller sul modello di best seller. Problema simile è quello dei falsi amici: library in inglese è la biblioteca non la libreria, stamp è un francobollo non una stampa, stranger è uno sconosciuto non uno straniero, sensible vuol dire ragionevole, non sensibile e così via.

Agli inizi degli anni Duemila si cominciò a far notare che il flusso di anglicismi stava assumendo in Italiano proporzioni abnormi, sconosciute ad altre lingue europee, con un conseguente arretramento dell’Italiano in favore dell’Inglese in diversi campi del sapere. Ciò destava (e desta) preoccupazione non solo per il rischio che interi settori del lessico vedano l’Italiano progressivamente emarginato, ma anche per la necessità di evitare che nel linguaggio della PA e di tutti gli enti alberghino parole o espressioni inglesi, laddove sarebbe d’obbligo la massima trasparenza comunicativa.

L’allarme cresce in quanto l’influsso dell’Inglese non investe solo il lessico, ma anche le strutture grammaticali, i “muri” della nostra lingua: un segnale chiaro ci è fornito da due preposizioni inglesi, under e over. La prima a insediarsi è stata under, soprattutto in ambito sportivo: la Nazionale di calcio under 21; dal linguaggio sportivo, under si è poi diffuso in altre sfere: questo libro è adatto agli under 9, intendendo i bambini al di sotto dei 9 anni. Sul modello di under si è diffuso anche over. È difficile sostituire under e over con sotto e sopra, considerata la loro diffusione; infatti, gli angloamericanismi che si diffondono sempre di più nel lessico e nelle strutture grammaticali dell’Italiano, si propongono spesso come la sola possibilità a disposizione di un parlante/scrivente italiano. Nell’inconscio linguistico degli italiani agisce l’idea che dire una cosa inglese “fa più chic”.

Ma è davvero così?

Discorso affine è quello del linguaggio dei giovani, della cosiddetta “Generazione Z” che identifica i nati tra il 1995 e il 2010, i quali hanno dei modi di dire propri, nati negli ultimi anni oppure importati da altre parti del mondo, che si evolvono e cambiano in brevissimo tempo, anche a causa dell’utilizzo dello smartphone e dei social media (Tik Tok e Youtube). Si tratta di espressioni provenienti da settori diversi, motivo per cui spesso risultano poco comprensibili alle generazioni più adulte. Tra gli ambiti preferiti dalle nuove generazioni da cui attingere nuovi spunti si può annoverare la musica, il web, il mondo dei videogiochi e quello anglosassone in generale. Molte espressioni e parole, infatti, non sono altro che termini inglesi, nella maggior parte dei casi abbreviati, tradotti e applicati ad alcune situazioni. 

Di seguito alcuni siti per approfondire il discorso: il primo raccoglie, in una sorta di vocabolario, alcuni termini utilizzati dai giovani oggi; il secondo evidenzia come i giovani modificano la lingua italiana nel lessico e nella sintassi.

https://www.tecnicadellascuola.it/come-capire-lo-slang-dei-ragazzi-vocabolario-minimo

https://www.2duerighe.com/arte/117224-parole-nuove-come-i-giovani-modificano-la-lingua-italiana.html

Questa breve trattazione, sicuramente non esaustiva, di temi così ampi ha avuto l’intento di sottolineare la bellezza e la creatività della nostra lingua, nonché la sua importanza storica e la sua “tolleranza” nei confronti di forestierismi così dilaganti.

L’Italiano è una lingua stupefacente, seppure complicata, e meravigliosa: usiamola.