della redazione
Il Centro per il Libro e la Lettura, già impegnato da alcuni anni nel progetto di educazione alla lettura “Libriamoci. Giornate di lettura nelle scuole” che si svolge a ottobre, in collaborazione con Hamelin Associazione Culturale di Bologna (www.hamelin.net), che ha ideato e cura Xanadu – Comunità di lettori ostinati, un progetto nazionale di promozione alla lettura per la scuola secondaria di primo e secondo grado, dà vita ora ai PUNTI LUCE Libriamoci e Xanadu, un corso sperimentale che parte da Conversano e Bari.
Stefania Liverini, autrice del blog La coda dei libri, operatrice culturale, promotrice della lettura, e collaboratrice del progetto, ha raccolto alcune riflessioni sul ruolo del narratore di storie.
La descrizione di un metodo e dell’intreccio dei saperi che sottende l’azione, apparentemente semplice, ‘di portare i libri e le storie’ ai ragazzi è una faccenda assai complessa. Difficile poterla spiegare in astratto, più semplice accennarla con quelle che sono delle osservazioni, poco più che solide suggestioni:
1. Prima del racconto delle storie o dei libri viene l’ascolto.
Questa affermazione può sembrare abbastanza banale e, in effetti, se ci pensiamo ‘il mettersi in una condizione d’ascolto’ è una delle premesse su cui poggia la possibilità di poter avviare un qualsivoglia racconto: ci deve essere un soggetto che racconta ed un altro che ascolta. Quindi, nulla di più scontato. C’è però un altro modo di intendere la stessa frase e per farlo occorre spostare l’attenzione, concentrandola su chi sta per iniziare il racconto. A lui o lei, prima che ad altri, il compito di ascoltare, di sentire tutto quello che si muove davanti a sé: gli sguardi, le risatine, le provocazioni, i commenti a mezza voce, gli umori.
2. L’intenzione che precede il racconto.
Cosa muove il narratore ad ascoltare quegli sguardi, quelle risatine, quelle provocazioni, quei commenti a mezza voce, quegli umori?
L’intenzione di chi porta le storie ai ragazzi non è la stessa dell’attore o dell’oratore. Non si tratta della necessità di ascoltare in modo da poter cogliere il momento giusto, l’attimo esatto in cui avviare la lettura o la narrazione. Non si tratta di guardare e sentire il proprio uditorio in modo da sapere quando cominciare, come calibrare il tono della voce, in modo che tutti siano attenti e pronti a ricevere la storia. Si tratta, forse, di qualcosa più vicino all’empatia. Mi metto in ascolto perché ho la certezza, la profonda sicurezza, che ci sono trame sottese alle storie che possono parlare a chiunque abbia voglia di condividere il racconto. E allora, il protagonista, quel personaggio o quella scena si mettono in dialogo con te, con il tuo vissuto e con il tuo immaginario. Ed io che racconto ho bisogno di sentire, per sapere dove tendere le corde per costruire quei ponti.
3. C’è chi ha qualcosa da dire o da pensare
L’ascolto di chi porta storie ai ragazzi non è quello di chi per mestiere o convinzione ha “da vendere una storia a qualcuno” è un ascolto che parla linguaggi più flebili, lontani dai codici dell’utile, con un’attenzione tutta spostata su chi aspetta quella storia e non perché si tratta di qualcuno da indottrinare ma, più prepotentemente, perché, davanti a te che racconti, c’è una persona più giovane che ha di certo qualcosa da dire o da pensare a riguardo.
4. Mai sottovalutare le conseguenze dell’ascolto.
Perché portare buone storie ai ragazzi è un po’ come affidarle ad altri sguardi e non potrai mai sapere con certezza fino a dove potranno arrivare.
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